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Dall’emergenza alla ripresa: il punto di vista IN/ARCH

In guerra contro chi?

La metafora della guerra al Coronavirus, che ha subito conquistato la fantasia dei commentatori, tende ad attribuire tutto il Male al microbo avversario, trasformando simmetricamente i suoi competitori in soldati del Bene.

 

Da molte parti è stata fortunatamente proposta una lettura più problematica delle parti in causa, che nel virus vede anche una qualche forza della natura che lo sconsiderato assurgere degli umani a Padroni del Creato ha rivolto contro di loro: troppi habitat naturali sono stati distrutti dalla colonizzazione selvaggia del Pianeta, per non far nascere il sospetto che un qualche loro abitante, avendo perso la propria casa su una pianta o su un animale, abbia cercato nel corpo umano un’alternativa residenziale.

 

In quest’ottica, il Coronavirus appare meno uno strumento di Satana, genio del Male, e più come conseguenza devastante dell’azione umana, come Golem, creatura forgiata (più o meno metaforicamente) “in laboratorio” dall’uomo per alimentare la propria volontà di potenza, che a un certo punto è sfuggito al suo controllo e ha cominciato a rivoltarsi contro il suo artefice e padrone.

Come contrastare la pandemia?

Di fronte all’emergenza Coronavirus, il comportamento della maggioranza degli italiani – istituzioni e cittadini – ha dato prova di grande sforzo di mobilitazione, disciplina e solidarietà. Una mobilitazione davvero significativa se si considera che, a fronte di una minoranza privilegiata, la più parte dei cittadini ha dovuto affrontare questa sfida in condizioni di disagio spesso anche estremo. Una mobilitazione caratterizzata dal rispetto rigoroso delle misure drastiche messe a punto dal mondo scientifico e, contemporaneamente, dall’attivazione di un processo intensamente partecipativo nella gestione di quelle misure stesse. La dialettica fra Stato e Regioni, fra Regioni e Comuni, fra Comuni e comunità locali (più o meno istituzionali) può essere letta come dialettica fra espressioni molteplici e non antagoniste tra loro, all’interno di una società democratica e policentrica, scaturita da una storia e da una pratica pluralistica di antica data. Una dialettica certo non esente da contraddizioni, scaturite dalle caratteristiche assai diverse delle nostre realtà regionali e locali, che hanno dato vita ad altrettanto diverse – e diversamente efficaci – strategie di contenimento del contagio.

 

 

Dal punto di vista dell’IN/ARCH, il coinvolgimento dei cittadini anche nelle situazioni critiche – soprattutto quando destinate a durare a lungo – può aumentare il grado di efficienza della società nel fronteggiare il pericolo. In questo senso il mancato decentramento del sistema di assistenza e prevenzione in rete di medicina del territorio, a diretto contatto con le comunità locali, in favore delle sole grandi strutture ospedaliere e di troppe cliniche private, ha mostrato tutti i suoi limiti. Al contrario le piccole unità sanitarie mobili che sono state attivate in fretta e furia, per cominciare a monitorare la salute civica casa per casa, possono e devono essere considerate anticipazioni di un sistema più articolato e complesso e, soprattutto, più prossimo agli utenti.

 

IN/ARCH e la ripresa

Più in generale, la partecipazione attiva dei cittadini potrà fortemente condizionare in senso positivo i modi della ripresa (non della ricostruzione post-bellica!) man mano che il contagio verrà posto sotto controllo.

 

La nostra associazione è fortemente contraria ai miti che vanno diffondendosi su un presunto valore salvifico delle legislazioni speciali – dalla drammatica sostituzione del Ponte Morandi agli attuali dispositivi contro la pandemia (condivisibili solo per un intervallo di tempo limitato) – che, se adottate per periodi lunghi, non possono che condurre a un regime plutocratico. Al contrario, bisogna lavorare a una semplificazione normativa capace di superare l’inerzia determinata dall’attuale bulimìa legislativa – e dalla paralisi burocratica che ne discende – verso un’autentica democrazia partecipativa.

 

Per l’Inarch, che attraverso l’architettura si è sempre battuto per una “società aperta”, è il momento di avanzare con forza i valori sui quali fonda la sua azione, ponendoli al servizio di una giusta fuoriuscita dalla tragedia in corso:

 

Creatività progettuale materializzata in architetture originali non autoreferenziali, ma animate dalla tensione comunitaria propria alla nostra tradizione, che ha conosciuto l’auto-riduzione consensuale della proprietà privata a favore dello spazio pubblico tanto “dal basso”, come nel reticolo dei portici bolognesi, quanto “dall’alto”, come nella facciata di un palazzo nobiliare trasformata in grande attrezzatura collettiva alla Fontana di Trevi;

Modo di produzione italiano, caratterizzato certo dalla presenza di aziende leader a scala internazionale, ma fondato soprattutto su imprese di dimensioni contenute nelle quali la tradizione intellettuale e manuale del nostro paese contrasta efficacemente la riduzione del lavoro a pura esecuzione meccanica e ripetitiva; dalla galassia di individualità creative deve scaturire un “sistema paese” integrato, pena una marginalizzazione difficilmente reversibile;


Contrasto ai “grandi assembramenti” edilizi che hanno condotto alle megalopoli, fonti di crescenti diseguaglianze e potenziali focolai di epidemie – che nella circostanza presente non risparmiamo purtroppo neppure le nostre pur virtuose città medie – a favore di un habitat policentrico e complesso, capace di superare la dicotomia fra agglomerazioni metropolitane e aree abbandonate;


Rigenerazione urbana mirata all’articolazione degli agglomerati metropolitani in federazioni di comunità integrate autonome, coordinate e idonee ad accogliere degnamente al proprio interno tanto una natura troppo a lungo bandita, quanto persone che raggiungono le nostre coste in fuga da guerre e carestie; tali comunità potranno certamente essere caratterizzate anche da un’alta densità residenziale e funzionale;


Grande piano di edilizia popolare pubblica per un nuovo welfare abitativo. La necessità di dotare di edilizia sociale ampie fasce di popolazione in condizioni di povertà deve oggi confrontarsi con i temi della rigenerazione urbana e del contenimento di suolo, del riuso e riqualificazione dell’ingente patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato o dismesso, di una produzione edilizia ispirata alla sostenibilità ambientale e sociale ed all’efficienza energetica, della rivitalizzazione delle aree interne del Paese e dei borghi disabitati. Un piano per la casa che sappia anche offrire nuove risposte ai problemi dell’accoglienza e dell’integrazione di nuovi lavoratori immigrati, spesso vittime di un disagio abitativo tra i più estremi.


Rinnovata alleanza con la natura attraverso l’introduzione di modelli produttivi integrati, capaci di ridurre al minimo il consumo di risorse e la produzione di scarti e rifiuti, il rilancio di metodi di coltivazione e di allevamento – mutuati dalla nostra storia e radicalmente alternativi alla mono-colturalizzazione e agli allevamenti intensivi – che sappiano inaugurare una nuova stagione dello straordinario paesaggio agrario italiano, del quale dobbiamo continuare a essere custodi creativi soprattutto attraverso politiche di rilancio delle aree interne abbandonate; tale paesaggio potrà certamente trovare declinazioni metropolitane non soltanto nella forma ormai tradizionale degli orti urbani, ma anche in quella più innovativa delle fattorie verticali;


Riorganizzazione della professione attraverso un superamento delle ambiguità dell’attuale regime ordinistico, a cavallo fra ente di diritto pubblico, magistratura e rappresentanza degli interessi degli iscritti; una riorganizzazione mirata al superamento dell’attuale frammentazione in unità di produzione troppo piccole, culturalmente e tecnologicamente inadeguate alle sfide che la società contemporanea propone all’architettura, a partire dal nuovo paradigma del distanziamento sociale;


Collaborazione con le Università per un percorso formativo capace di ospitare tanto l’introduzione massiccia di “smart working” nel lavoro professionale, che la pandemia in corso ha evidenziato come indifferibile, quanto la necessità di sistemi edilizi mobili, provvisori, flessibili che l’emergenza Coronavirus ha portato alla luce e che dovranno probabilmente caratterizzare l’industria delle costruzioni ben oltre tale emergenza, per poter affrontare i continui cambiamenti che la realtà contemporanea produce a ritmo sempre più sostenuto.

Emergenza e ripresa

Per avviare in maniera corretta questo processo sarà necessario procedere a indagini e interpretazioni dei dati pandemici riportati dalle diverse ripartizioni amministrative del Paese e a elaborazioni che permettano di leggere le relazioni tra i caratteri morfologici, geografici, insediativi e ambientali e gli effetti del contagio.

 

Se si può senz’altro comprendere che i primi provvedimenti di emergenza siano mirati a garantire condizioni minime di sopravvivenza alla generalità della popolazione e dell’apparato produttivo, nella fase successiva sarà fondamentale incentivare le imprese che fanno ricerca verso sistemi di produzione sostenibili e prestare attenzione alla zona grigia di collaborazione tra imprese e professionisti e organizzazioni criminali (nel decreto cura Italia non si fa minimo cenno neanche alla presentazione delle certificazioni antimafia).

 

In questa prospettiva l’IN/ARCH richiama l’attenzione sul fatto che nella Task Force incaricata dal governo di elaborare le linee-guida per la ripresa sono assenti gli esperti di pianificazione del territorio e di procedure di sicurezza, che risultano invece assolutamente decisivi a che l’immaginazione di una società del distanziamento – in luogo di quella della prossimità cui siamo avvezzi – non finisca per essere dominata dai soli dispositivi centralizzati del controllo sociale. Per scongiurare questo pericolo è fondamentale il ruolo del progetto, ovvero di un’architettura che sappia ripartire da una nuova concezione dello spazio domestico per estendersi poi a una visione territoriale capace di contrastare gli squilibri geografici e le diseguaglianze sociali che, diversamente, sono destinati ad approfondirsi e aggravarsi.

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